PRCS 7942
Grotta del Fumo Stampa 

Dati generali

Numero catasto 3 - SLOVENIA
736
Numero catasto 1- CATASTO STORICO VG
626
Area geografica
CARSO SLOVENO
Nazione
SLOVENIA
Comune
Sezana
Località
Slivje
Dislivello
134 m
Sviluppo spaziale
6020 m
Profondità
134 m
Num. ingressi
1
Pozzo di accesso
Pozzi interni
Artificiale/Naturale
Naturale

Altri nomi

Dimnice
Rauchgrotte

Descrizione

Descrizione storica della prima visita

A 400 m. da Marcóssina (oggi stazione del­le autocorriere per Villa del Monte Ne­voso (Bisterza) e Fiume e in breve cer­tamente anche del nuovo tronco ferroviario che da Erpelle si staccherà nella stessa dire­zione) verso Slivia, a circa 9 chilometri dalla stazione di Erpelle. Terreno carsico con tutte le sue caratteristiche: doline, baratri, pozzi, torrenti che s'inabissano per cantar la loro can­zone selvaggia sotterra. Ogni valle ha il suo cor­so d'acqua. La regione a nord della strada di Fiume, al primo esame d'una carta topogra­fica, si direbbe irrigata dall'uomo. A Loca Grande l'acqua s'impaluda. Tutta quell'ac­qua dove va a finire? Dalle ricerche del pro­fessore Timeus, direttore del Laboratorio Chi­mico dell'Ufficio d'Igiene di Trieste, risulta ac­certata la comunicazione del torrente che viene inghiottito a Odolina con le risorgenti del Ri­sano a S. Maria. Di supposizioni ce ne sono per qualche altro, ma lasciamole lì, che ci condurrebbero lontano. Vedremo fra poco il tor­rente finora misterioso nella Grotta del Fu­mo e lo ritroveremo anche d'estate, quando i corsi superiori sono asciutti. È fuor di dubbio che un corso superficiale serpeggiava un tem­po in quella regione e che vi si rifletteva una vegetazione arborea, che, con la sparizione del mantello d'arenarie, è scomparsa. Veniva alimentata da quello stesso bacino dal quale provengono i succitati brevi corsi d'acqua, che ora spariscono nella gran spugna calcarea, sol­candola in ogni direzione e creando pozzi, gallerie, caverne e tutto l'arsenale carsico, che poi lo stillicidio addobberà con una prodigalità che da il capogiro.

La scoperta.

In questa regione il cav. A. Perco, l'at­tuale solerte direttore delle RR. Grotte Dema­niali di Postumia, scopriva nel 1907, e in se­guito rilevava, una grotta dello sviluppo di 1230 m., d'una profondità massima di 124 m. e con un torrente che la traversa per 1/2 km. Erano altri tempi. Degli abitanti del luogo nessuno volle accompagnarglisi nell’impresa. Quegli esseri misteriosi che avevano già popo­lato i monti, erano ormai discesi di parecchio, ma non morti: morti sono oggi, e ben morti almeno nella mente di quell'agricoltore, che furbescamente mi sorrideva, quando gliene parlavo nell'ultimo tratto di strada verso Sli­via. Niente mostri per lui, e diavoli talvolta sì, ma in forma di uomini, cattivi come diavoli. Lo scopritore non v'era naturalmente disce­so allora, senza attrezzi; ma in seguito veniva scavata nella roccia l'attuale stradicciola a chiocciola, che per circa 40 metri scende nel pozzo, per distendersi poi per il suolo della grotta e mandare diramazioni verso i suoi punti più interessanti. I lavori di ricerca e di sistemazione furono sospesi allo scoppiar della guerra, durante la quale non mancarono le inevitabili devastazioni vandaliche di ciò che fu più facile non rispettare. Oggi la grotta è in possesso della Società Alpina delle Giulie, sezione di Trieste del C. A. I., la quale la cede in affitto al Comune di Matteria.

Il fumo che non è fumo.

Un sentiero che traversa il terreno carsico vi conduce in pochi minuti da Marcóssina (cartello indicatore). Un'antenna per il tricolore e, nella sta­gione fredda o all'abbassarsi della pressione atmosferica, una nube di vapori - alla quale essa deve il nome - ne indicano la posizione. Ivi s'inabissa il pozzo reso accessibile. Una do­lina nell'immediata vicinanza si sprofonda al posto dell'antico inghiottitoio del torrente su­perficiale, del quale vedremo poi le tracce nel­l'interno, assieme allo sbocco dell'altra vora­gine, per la quale era disceso lo scopritore.

La caratteristica ventata vivificante d'aria ozo­nizzata, che porta con se il grato odore della terra umida e della vegetazione crittogamica, ci da il saluto mentre discendiamo; un Fascio Littorio di cemento, inaugurato l'anno scorso, mentre seguiva l'apertura ufficiale della grotta, ci ricorda la Patria nuovamente redenta. La via è comoda. Le rampe si alternano agli scalini di cemento. L' impressione di scendere nel vuoto si fa sempre più viva. In quel giorno - 4 marzo u. s. - era ancora intatta la neve re­cente e il pozzo, con la vegetazione invernale abbarbicata sulla roccia e il parapetto rosso, ne riusciva tricolorato. Qua e là pendevano del­le stalattiti di ghiaccio.

Una sala da ballo sul fondo d'una voragine.

Con tutta comodità (se abbiamo con noi la guida  venuta  dalla  vicina  frazione  di  Slivia col fanale ad acetilene e l'indispensabile chia­ve) scendiamo nell'atrio del piccolo mondo sot­terraneo. Dei pilastri enormi si slanciano verso il soffitto illuminati dalle tonalità più tenui della luce del giorno. Il mondo esterno si allontana. Non però nei dì di festa della grotta, perché la sala è dedicata a Tersicore. A destra una frana è in corrispon­denza con la dolina osser­vata presso l'ingresso. Vi furono rinvenuti dei resti fossili di grandi mammi­feri. Ormai ci troviamo nel Grande Duomo e subito ci si presentano due ciclopiche colonne, tutte scanalature capricciose e incrostazioni colorate, intor­no alle quale lo stillicidio, dopo averle create, ha lavorato per millenni. Vi ci indugiamo per poco; ma altre formazioni cristalli­ne si susseguono senza interruzione. Colate di cera con sbavamenti enormi, pendule lingue con effet­ti di trasparenza e colora­zioni sempre nuove : pas­sando accanto a una tartaruga enorme le facciamo istintivamente una carez­za; poi siamo attratti dal bianco e dal rosso del tet­to, a macchie, strie che si accompagnano, s'interse­cano, s'accumulano, com­pletando le scenario in modo magnifico. Si ve­dono le concrezioni in formazione. Per poco che si attenda, si può seguire la goccia che si stacca dal soffitto e che porta il suo lento con­tributo alla colonna che nasce. Nell'incavo del­la sommità delle stalammiti si vede il color virgineo del calcare nuovo. Ecco un bambino che protende le braccia verso di noi con gioia. Camminiamo sul vecchio letto del fiume. Un sentiero comodissimo ne raggiunge il nuo­vo corse, ma le lasciano per il ritorno.

La sala del cuoio e del damasco.

Dopo un centinaio di metri dalla voragine d'accesso ci si presenta la prima galleria artificiale, che è anche la più lunga. La tempera­tura, non più influenzata dalla corrente d'a­ria in moto fra i due pozzi, sale. Siamo ai normali 120 C. interni e qualche mantello è la­sciato indietro. La galleria mette in comuni­cazione il Duomo con le altre sale, che rac­chiudono nuove meraviglie. Una cascata enorme di pietra precipita dal cielo della grotta, circondata da formazioni minori che neppur si guardano. Siamo nel regno delle Fate. Dei pezzi enormi di cuoio, disposti su parecchi piani, pendono dall'alto. E continua il bianco e il rosso del soffitto. Poi son cortine, scialli damascati, fasci di stalattiti, e subito dopo due colossali pilastri che formano un portale enorme con nodi, protuberanze, rinforzi, incrcostazioni; un santuario per l'adorazione di dei nuovi o tramontati.

Nell'Orrido.

Dopo una galleria artificiale minuscola il terreno si fa pianeggiante. Si cammina sull'argilla; il colore dei sali ferrosi misti al calcare incupisce le concrezioni cristalline, e quell'in­sistenza di tinte brune, terrose fa un'impressio­ne strana sull'animo. Sono altri 200 metri, in un silenzio che incombe. Il rumore dell'acqua è smorzato dalla lontananza. Al torrente non si discende di lassù che con l'aiuto di corde, ma si vuoi indagare la profondità dei crepac­ci colle pietre e se ne sente il rotolare e il tonfo nell'acqua.

Sala delle meraviglie.

La visione che ci colpisce è di una bellezza che non ha confronti che in grotte ben mag­giori. Si procede fra blocchi giganteschi, i qua­li costituiscono il basamento di armoniosi grup­pi di stalammiti d'ogni grandezza e forma; e dal tetto pendono aghi a migliaia e pendagli aguzzi e festoni che seguono disegni fantasti­ci. Una stalammite sta per incontrare - questione di secoli - la colonna gemella che progressivamente le si avvicina dall'alto; un tenue filo unisce già i due esseri che s'attraggono: il tempo poi, che nella natura non conta e per cui i millenni non son che attimi, verrà a comple­tare il pilastro, nel quale le due creature saran­no unite e immedesimate per l'eternità. Anche il suolo è una meraviglia. Sembra del cemento versato lì per sistemare la grotta, e ne spuntano cippi e co­lonne d'ogni grandezza, statue e statuine e frutti della terra con le foglie aperte all'ingiro; stalattiti che, percosse, danno un suon di campana; vasche dai bordi sinuosi, che ri­cordano le fontane di San Canziano; e poi di nuovo un'infinità di aghi minutissimi pendenti dalla vol­ta e una vegetazione rigo­gliosa di muschi e licheni, che si vuoi toccare, per sentirne la rigidità.

Lo scrigno fatato.

Abbiamo l'impressione di muoverci nello scrigno di un nababbo. Tutto bril­la. Cristalli di calcite che son diamanti grossissimi, confondono col numero sterminato, col loro splen­dore che varia, si spegne, si riaccende come proce­diamo. L'effetto non è de­scrivibile. Involontaria­mente titubanti, occorre camminarvi sopra. Si pensa a raccoglierne. Delle strisce bianche seguono il livello antico del corso sotterraneo, delle spaccature nella roccia sono il ricordo di qualche antico terremoto. I bambini hanno fatto un recinto che sembra d'argilla plastica ed è di roccia. Quali bambini dalle dita d'ac­ciaio? Me lo indica il barone Marenzi, che mi fa gentilmente da guida e poi mi tenta e mi fa salire con mani e piedi per i massi d'u­na frana diabolica, affinchè vi possa ammira­re i fulgori e le formazioni pudicamente ce­late in complicate ramificazioni di cavernette, dove per certo quegli stessi bimbi hanno già fatto a rimpiatterello. E quel sacco capovolto? Ricorda l'altro enorme, della leggenda, da cui il Padre Eterno lasciava inavvertitamente ca­dere quei sassi, ai quali il Carso deve la sua origine? Sono cinquecento metri di sorprese conti­nue. Non si sente stanchezza. Si vuol arrampicare per godere prospettive nuove, nuovi effetti di luce, nuove combinazioni di luccichii. Si attraversa una terza galleria. Chi ci ha messo là sopra le «tavole della Legge»? Ma siamo alla fine. L'ultimo lavoro di escavo nell'argilla e nel­la sabbia fu abbandonato al prodursi della guerra, ma forse più in là ci sono forse altre caverne, non essendo probabile che proprio da quel punto il fiume abbia abbandonato l'antico canale. Si ritorna.

Al torrente.

Dopo la prima galleria si stacca la serpen­tina che discende all'Acheronte. È da augu­rarsi che essa, in date occasioni, sia illuminata sobriamente per conservarle il suo aspetto sel­vaggio. Le stalattiti che pendono dal soffitto sono differenti dalle altre. L'aria mossa le pie­gò, le sformò, le contorse. Si guardano con curiosità. Più sotto l'ambiente si presterebbe a un'illuminazione colorata. Lancio l'idea per quando ci sarà l'energia elettrica. Io vi discesi alla luce intermittente di qualche diecina di fiammiferi, mentre il resto della comitiva era ancora indietro per riprendere gli indumenti, all'imboccatura della galleria, e la serpentina la feci a tratti, tendendo l'orecchio al rombo dell'acqua che s'avvicinava e affondando inutilmente lo sguardo nella tenebre. Il torrente lo raggiunsi presso alla cascata, sempre per la buona strada, che per proceder sicuri basta non abbandonare e, seduto su di un masso, nell'oscurità completa, con negli orecchi lo scroscio dell'acqua cadente, attesi gli amici. La luce del riflettore ad acetilene mi annunciò, l'arrivo dei compagni e appena allora vidi la cascata spumeggiante, dopo la quale il torrente completa, lento lento, i suoi 500 metri di corsa nella caverna. Stalattiti in forma di tende, di aghi, di pesanti festoni pendono dalla volta irregolare, tutta sinuosità; colonne sporgono dal torrente. Il canale non è largo. In quel giorno potei spingermi innanzi fino al sifone d'uscita, procedendo carponi e guazzando coi piedi. D'uscita, naturalmente, per I'acqua, non per il bipede curioso. E’ il punto più romantico. Arriva da lontano, smorzata, il fragore della piccola cascata. La caverna si fa sempre più stretta e infine il tetto si abbassa repentinamente e la chiude a saracinesca. Un gorgoglio e I'acqua sparisce nell'ignoto. Donde viene, quando d'estate i letti dei torrenti, su nelle valli, sono asciutti? Dove va? La pressione vale a creare e a rifornire un deposito perenne di spuma densa e resistente che sembra panna montata.

 Al teschio

Risalendo, una diramazione del sentiero pas­sa dinanzi a un masso, intorno al quale lo scalpello della natura s'è sbizzarrito in modo curioso, foggiando un teschio. E c'è chi vuole che non ci sia soltanto un teschio. Togliete i freni alla fantasia e, a seconda dei casi, arriva­te alla «creatura che vuol divincolarsi dalla rupe» con la quale è concresciuta, al «Ba­cio della Luna» dello Zamboni, o ai «mo­stri nelle nuvole», che il vento trasforma a ogni soffio.

 La Grotta Bianca

Il sentiero sale. La luce del giorno rida il solito piacere; ma resta da visitarsi la Grotta Bianca tra i due pozzi d'accesso. Ivi di nuovo stalattiti e stalammiti candidissime, di nuovo formazioni enormi con scanalature, festoni, nappine a fasci. Su di un masso stalammitico enorme una testa umana, un bambino con le braccia incrociate, una figura che fa il più bel saluto, nell'impeto della corsa. Poi di nuovo la luce del giorno, che scende dall'altra vora­gine. Vi si arriva, in discesa, per l'inevitabile frana; si spinge lo sguardo in alto, fra le anfrattuosita, poi si ritorna.

Le ultime sorprese

Ma nel ritorno ci sono ancora da visitare le due grotticelle di cui una giustifica da sola una visita. Le più fantastiche e bizzarre combinazioni dell'architettura moresca con la goti­ca hanno avuto colà dalla goccia d'acqua la col­laborazione più assidua. Le stalammiti e le sta­lattiti si sono riunite in forma di pareti, con pilastri scanalati, nicchie che si sprofondano in cavernette, chiuse ai lati da lastre vaga­mente trasparenti e mensole frangiate e nappi dalle complicazioni più strane pendenti dal soffitto. Si lascia questo luogo a malincuore, perché si vorrebbe indugiarvisi in un lungo e raccolto riposo. Nell'osteria Custrin attende l'album dei visitatori e il rancio. Nel pomeriggio si fa una breve visita agli inghiottitoi e alla cam­pagna limitrofa, dove non mancano gli albe­ri da frutto.

A.TOSTI

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Note

1) zaklenjena
2) TTN-5
3) CHIUSA CON CANCELLO

Bibliografia

L.V. BERTARELLI - E.BOEGAN, 1926, 2000 Grotte
Polli Elio, 2005, Atti e memorie della Commissione grotte E.Boegan Volume 40
Sguazzin Franco, 2005, Atti e memorie della Commissione grotte E.Boegan Volume 40
1908, Grazer Tablatt n. 195
Laibach, 1909, Laibacher Zeit n. 240, 241,242,243,244
Carlo Colussi,1929, Liburnia Vol. XXII
Wien Bd LII, 1909, Mitteilungb K.K. Geogr. Gesellschaft
1905, Triestiner Tagblatt n. 7638, 7639

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